Intervista al disegnatore Alessandro Nespolino realizzata in collaborazione con i Dylandogofili e pubblicata originariamente sull’omonima fanzine numero 8.
Se non ricordo male il tuo ingresso alla Star Comics è databile 1994/95. Ad oggi sono ben 20 anni di carriera! A pensarci ti fa un po’ effetto tagliare questo traguardo?
L’ingresso alla Star è del ’95 e nel dicembre dello stesso anno uscì il numero 30 di Lazarus Ledd che mi vedeva tra i disegnatori. L’albo era diviso in due parti, poiché c’era un viaggio nel tempo, ed io disegnai la parte che si svolgeva nel presente, mentre Alfredo Orlandi disegnò quella ambientata nel passato. In ogni caso, ti confermo che sono 20 anni di carriera poiché la mia primissima pubblicazione avvenne appunto nel ‘94, su una serie che si chiamava Demon Story, di una piccola casa editrice romana. Si trattava di una serie che raccoglieva storie brevi horror e la storia di apertura era la mia. Sono 20 anni che faccio ‘sto mestiere? Se non mi facevi la domanda e mi spingevi a recuperare questi albi per controllare le date, non avrei saputo risponderti. Io non sono bravo con le date e adesso che me l’hai fatto scoprire, ammetto che fa davvero uno strano effetto. Ho sempre creduto nella possibilità di diventare un disegnatore di fumetti e fortunatamente ci sono riuscito quasi da subito. Ho iniziato a lavorare poco dopo aver finito il biennio alla Scuola Internazionale di Comics a Roma, dopodiché tutto è avvenuto piuttosto velocemente e in questi 20 anni sono riuscito ad avere varie esperienze in questo settore.
Guardando indietro e pensando alla tua posizione attuale è cambiato il tuo approccio a questo media?
Quando ho iniziato c’era la voglia e l’entusiasmo di chi ha la possibilità di realizzare un sogno e dimostrare che ce la si può fare. Io sono napoletano e quando provieni da una città e da una regione che ha da sempre tra i suoi problemi ha quello della disoccupazione, puoi capire che l’idea che facessi il fumettista e lavorare per case editrici che si trovano solo da Roma in su, era visto con un po’ di scetticismo. Per non parlare del fatto che puntassi da sempre alla Bonelli, che come tutti sanno sta a Milano. All’inizio mi sono gettato anima e corpo in questo mestiere, poiché dovevo riuscire da subito a dimostrare che avevo le possibilità per farcela. L’ingresso nella Star Comics, fu il primo passo verso questo obiettivo. Se all’inizio dalla mia carriera c’era la voglia di arrivare ad ottenere dei risultati, oggi c’è il desiderio di mantenere lo standard del mio stile sempre ad un buon livello qualitativo e quindi cerco sempre di guardarmi intorno e non dare nulla per scontato.
L’amore per il fumetto si è sempre più saldato? È diventato “un lavoro” o lo fai sempre con la stessa passione?
Per qualche tempo ho letto poco, però ultimamente ho ripreso a farlo e ho riscoperto il vecchio piacere di gustarsi una bella storia a fumetti. Non tutto quello che leggo mi piace, però trovo ancora storie belle, grazie a sceneggiatori che hanno grandi capacità di scrittura e disegnatori con grande talento. Ho ancora molta fiducia verso questo mestiere e lo faccio ancora con passione nonostante la responsabilità di una famiglia. La conseguenza è mantenere un compromesso tra produttività e qualità. Cerco di non produrre mai meno di 10 tavole al mese (in media ne disegno tra le 10 e le 15) mantenendo il più possibile un certo livello qualitativo. Produrre più tavole, a scapito della qualità, mi mortificherebbe come disegnatore.
Ti senti “arrivato” o ti rimetti sempre in discussione?
Non mi sento assolutamente arrivato. Ho delle consapevolezze relative al mio modo di approcciare questo lavoro, ma sono sempre alla ricerca di nuove soluzioni stilistiche e di linguaggio. Anche lavorare per altri mercati, com’è capitato con l’esperienza con la Francia, dove i fumetti sono a colori e hanno un’impostazione della pagina molto differente da quella Bonelli, mi ha permesso di cercare nuove soluzioni grafiche e stilistiche.
Per quanto riguarda il mercato del fumetto: in cosa è diverso oggi rispetto agli anni ’90?
Credo che in primis sia cambiato il modo di raccontare. Negli anni ’90 le serie a fumetti erano tutte concepite con la logica delle serie infinite e in ogni albo veniva raccontata una storia singola, come avveniva nei vecchi telefilm. Mutuato dalle nuove serie televisive e dagli esempi delle serie a fumetti americane e giapponesi (e per tenere più vincolati a se i lettori), ha cominciato a prendere piede anche qui da noi, l’utilizzo della sottotrama. La sottotrama si inserisce nella serie e si sviluppa all’interno di un ciclo narrativo, fino ad esplodere in un gran finale che non chiude la serie, ma permette di aprire nuovi scenari narrativi. E contemporaneamente la serie può proseguire con storie singole, com’è nella sua tradizione. Con la chiusura di alcune serie, si è passati alla creazione delle miniserie. Non più una singola storia per albo, ma un’unica storia che si sviluppa per 12, 18 albi e poi finisce. Oppure, come sta avvenendo per le ultime serie della Bonelli, le serie vengono concepite per cicli narrativi e, se i dati di vendita lo permettono, ad un ciclo può succederne uno nuovo.
In tutto questo si inserisce anche il rapporto tra gli autori e i lettori. Mentre in passato il lettore indirizzava le sue lettere alla casa editrice, o incontrava gli autori nelle mostre, grazie ai social network e ai blog, il rapporto è diventato più stretto e immediato. Dopo qualche giorno che è uscito un tuo albo basta collegarsi ad un sito che parla della serie e puoi leggere i commenti dei lettori e, se vuoi, puoi interagire con loro.
Tu hai esordito nel mondo del fumetto davvero giovanissimo, poco più che ventenne. Immagino però che prima di diventare una PROFESSIONE il fumetto sia stato, nell’ordine, una PASSIONE, un SOGNO e una SPERANZA. Sapresti identificare questi tre momenti di passaggio nel tuo percorso artistico?
Fin da piccolo ho sempre disegnato e in casa mia i fumetti ci sono sempre stati grazie a mio padre che è tutt’ora un grande lettore ed appassionato. Da piccolo disegnavo ispirato soprattutto dai cartoni animati, ma il momento di passaggio, per cui iniziò la vera passione per il fumetto, fu nel 1984, quando lessi il mio primo Diabolik. Rispetto a tutto ciò a cui ero stato abituato a vedere e leggere (relativo al mondo del racconto per immagini, dai cartoni giapponesi ad Akim della Jungla), quello di Diabolik mi apparve come un mondo meno fantastico, più reale ed attuale perché parlava anche di droga e omicidi. Dopo qualche anno, alla ricerca di qualcosa di diverso da Diabolik, venni incuriosito dagli albi Bonelli e così nel 1987 comprai il mio primo Dylan Dog, il numero 12, Killer, di Sclavi e Montanari-Grassani. A quel punto scoprii ancora un nuovo modo di raccontare, appassionandomi sempre di più a Dylan e al resto del mondo Bonelli, e cominciando a sognare di farne parte. Che fossi bravo a disegnare me lo dicevano tutti, ma ho sempre pensato che dovessero essere degli esperti del settore a dirmelo. All’epoca però non conoscevo altri appassionati di fumetti che vivessero dalle mie parti. L’unico modo per avvicinarmi a questo mondo fu quindi frequentare, dopo il diploma, la Scuola Internazionale di Comics di Roma. Qui, grazie ai miei docenti di allora, da Pino Rinaldi a Mario Rossi, cominciai ad avere la speranza di poter diventare un giorno un disegnatore. Come ti ho già detto in un’altra risposta, furono però i primi lavori e l’entrata nello staff di Lazarus Ledd, che era all’epoca l’unico fumetto prodotto in Italia che si opponesse alla Bonelli, a darmi una speranza ancora più concreta.
Dopo circa cinque anni, nel 2000 finalmente riesci ad approdare alla Bonelli. Ci racconti come è iniziata la collaborazione con la casa editrice su “Nick Raider”?
Tra il ’98 e il ’99, lavorai per conto della Scuola Italiana di Comix di Napoli, dove già insegnavo, a due storie a fumetti. Una era Il sindaco del rione Sanità, per la collana Il teatro di Eduardo a fumetti, e l’altro era La vita del Beato Bartolo Longo, per conto del Santuario di Pompei. Per entrambe i lavori mi occupai solo delle matite mentre le chine vennero affidate a un altro docente della scuola e a due miei allievi. Quei lavori mi permisero di avere un po’ di tempo per dedicarmi a tavole da inviare in Bonelli. Poco dopo aver spedito le tavole, grazie a un paio dedicate a Magico Vento, Renato Queirolo, curatore di Nick Raider e Magico Vento, mi contattò per delle prove ufficiali. Realizzai due tavole di Nick Raider e lo studio di tutti i personaggi della serie, dopodiché iniziai la mia collaborazione con la Bonelli.
In una risposta precedente hai detto che entrare in Bonelli era “il tuo sogno”. Una volta dentro come ti sei trovato? Cosa cambiava rispetto alle precedenti tue esperienze lavorative? Era quello che ti aspettavi?
L’inizio in Bonelli non fu dei più facili. Renato Queirolo si dimostrò da subito un redattore molto esigente. Renato è un uomo completamente addentro a quello che è il linguaggio della Bonelli e visionava le tavole da ogni punto di vista, dal disegno al modo di raccontare. Nelle mie esperienze precedenti, con Ade Capone, su Lazarus Ledd e Morgan-La Sacra Ruota, ho goduto di grande libertà e fiducia e ho potuto esprimermi con un disegno molto moderno che strizzava l’occhio ai comics americani e a disegnatori come Adam Hughes e Alan Davis. Dopo l’esperienza con la Star Comics e i due progetti con la Scuola Italiana di Comix di Napoli, dove feci perlopiù il matitista, mi imposi un cambio di stile, alla ricerca di un disegno e un linguaggio più classico. Una volta entrato in Bonelli, sotto la supervisione di Renato Queirolo, mi trovai ad affrontare problematiche molto legate al modo di raccontare secondo quelli che sono gli stilemi propri della casa editrice di via Buonarroti. Ovviamente a distanza di anni mi rendo conto che gli insegnamenti – e le cazziate – di Renato – che è un uomo che di certo non te le manda a dire – si sono dimostrate molto utili e sono una parte fondamentale del mio bagaglio formativo.
Da lì in poi inizia la tua lunga carriera in via Buonarroti, realizzando tante storie per tante differente serie: Brad Barron, Volto Nascosto, Magico Vento, Shanghai Devil… Hai qualche aneddoto che ti piacerebbe raccontare su qualcuna di queste serie?
In realtà ogni serie porta con se un aneddoto o un elemento importante per la mia carriera. Dopo Brad Barron, e vista la necessità di una nuova collocazione in casa editrice, Sergio Bonelli mi propose per Tex. Puoi immaginare la mia sorpresa e soddisfazione quando Mauro Marcheselli mi annunciò la cosa per telefono. Contemporaneamente, Renato Queirolo (con cui non avevo più lavorato dopo Nick Raider), mi chiese di disegnare uno o due albi della nuova miniserie di Manfredi, Volto Nascosto. La cosa mi fece storcere un po’ il naso, sia per il rapporto difficile con Renato, ma anche per le caratteristiche della miniserie; un romanzo storico ambientato tra l’Italia e l’Africa, alla fine del 1800. Eppure grazie a Volto Nascosto, non solo cambiò in meglio il mio rapporto di lavoro con Renato (inizialmente avrei dovuto realizzare uno o due albi e invece ne disegnai tre, con grande soddisfazione proprio di Renato), ma nel 2009 vinsi il premio ANAFI (Associazione Nazionale Amici del Fumetto e dell’Illustrazione) come miglior disegnatore dell’anno. Dopo Volto Nascosto, Renato mi volle anche su un albo di Magico Vento, ancora su testi di Manfredi. Finalmente iniziai a disegnare Tex, ma ben presto Michele Masiero (intanto, se qualcuno se lo stesse chiedendo, Queirolo era ormai andato in pensione), mi chiese di disegnare un paio di albi della nuova miniserie di Manfredi, Shanghai Devil, che vedeva il ritorno in scena di uno dei protagonisti di Volto Nascosto. Anche questa volta gli albi divennero tre e, quando ormai pensavo di ritornare su Tex, ci fu la proposta di Manfredi, con cui si era ormai consolidato un rapporto di lavoro e di fiducia, di disegnare lo studio dei personaggi e il primo episodio della sua nuova serie Adam Wild. Se non ti bastassero questi aneddoti, c’è un’ altro elemento che ho sempre trovato simpatico nella mia collaborazione sulle nuove serie di Manfredi. Ho iniziato con Volto Nascosto col numero 3, con Shanghai Devil con il 2 e con Adam Wild con il numero 1… un conto alla rovescia che mi ha portato fortuna.
Tra queste serie, quale ti ha dato più soddisfazioni e quale invece ti ha creato più difficoltà?
Visto il premio vinto nel 2009, diciamo che Volto Nascosto è la serie che mi ha dato più soddisfazioni, anche perché ha dato il via ad una collaborazione lunga e fruttuosa con Manfredi. Per quanto riguarda la serie che mi ha messo più in difficoltà, passati gli anni di Nick Raider, con cui ho sofferto di più a causa del rapporto difficile con Renato Queirolo, diciamo che dopo sono riuscito a organizzare il mio lavoro senza imbattermi in grossi problemi.
Tra le serie a cui hai lavorato in passato, oggi concluse, se eventualmente, dovessero realizzarsi nuove storie, su quale ti piacerebbe tornare a lavorare?
Ti confesso che oggi, dopo aver lavorato per anni su serie ambientate alla fine del 1800 (compresi Tex e le storie di Sherlock Holmes che ho realizzato per la Francia nel 2012 e 2013), vorrei tanto disegnare una storia di Nick Raider, ambientata ai giorni nostri, tra auto che sfrecciano per le vie di Manhattan, con gente che usa i computer e parla al cellulare.
Alcuni autori si “sposano” ad una serie e praticamente lavorano a quella per anni, se non per decenni. Tu invece sei un disegnatore “ramingo”. È solo una questione di opportunità lavorative o una tua scelta? Dipendesse solo da te, preferiresti sposare la causa di un solo fumetto per un tempo più lungo e costante o preferiresti continuare a cambiare spesso personaggi e ambientazioni?
Nonostante le difficoltà iniziali di cominciare una nuova serie ogni volta (studio dei personaggi e ambientazioni), ti confesso che sono molto soddisfatto del mio percorso lavorativo. Questa opportunità è stata del tutto casuale e frutto del buon rapporto creatosi con Manfredi, che è lo sceneggiatore con cui ho lavorato di più negli ultimi anni e su più progetti. In ogni caso cambiare serie mi ha offerto molti stimoli, permettendomi di sperimentare nuovi stili e nuove soluzioni grafiche ogni volta. Come ti dicevo prima, escludendo Nick Raider e anche Brad Barron (che si svolgeva intorno al 1950), per puro caso mi sono specializzato su serie ambientate alla fine del 1800, passando dall’Italia all’Eritrea, dal Far West alla Cina, da Zanzibar fino alla Londra Vittoriana di Sherlock Holmes, anche se in questo caso per il mercato francese. Diciamo che per il futuro spero di mettere le radici in una serie per un po’ di anni, ma poi non mi dispiacerebbe tornare a lavorare su altri progetti, nuovi o vecchi che siano.
Tornando invece a “Dylan Dog”. Hai detto che è stato proprio l’Indagatore dell’incubo ad averti dato quell’impulso, quell’amore verso un certo tipo di fumetto che anni dopo ti ha portato a essere fumettista. Cosa ti ha aveva colpito di questa serie all’epoca?
Il mio primo Dylan Dog fu il numero 12, Killer! (a cui ho dedicato una delle due copertine della fanzine). All’epoca venivo da anni in cui avevo letto solo Diabolik ed ero alla ricerca di qualcosa di nuovo. La copertina di quell’albo e il personaggio stesso mi apparvero diversi da tutto ciò che avevo visto fino ad allora in albi nel formato Bonelli. Tex, Zagor, Il comandante Mark o Mister No li conoscevo come personaggi che vivono le loro avventure nel passato e quindi Dylan mi apparve come qualcosa di moderno e attuale. Lo comprai per curiosità, ma venni subito colpito dalla storia e dal modo in cui veniva raccontata. Killer! è una storia senza la classica presenza femminile di cui il buon Dylan si innamora e con cui finisce a letto (come avrei scoperto più tardi), eppure quella storia così carica di ironia (grazie ai siparietti tra Groucho e il rabbino, per chi ricorda la storia) e piena d’azione e scene splatter, mi conquistò subito (e nonostante fosse così tanto ispirata a Terminator). L’ironia, l’azione e lo splatter, sono gli elementi caratteristici e fondamentali che mi fecero innamorare del personaggio e da allora non ho più smesso di comprarlo.
Grazie a Dylan mi avvicinai anche al resto del mondo Bonelli, ma lui è stato ed è in assoluto il personaggio che preferisco. Ironia, azione e splatter erano l’essenza della scrittura di Sclavi e mi resi conto da subito che Dylan era Dylan perché dietro c’era un grande sceneggiatore, capace di raccontare in modo nuovo e originale un fumetto Bonelli. Altra caratteristica che mi ha fatto amare Sclavi, era la sua capacità di “vedere” ciò che scriveva: non si limitava a scrivere, riusciva a visualizzare le sceneggiature aiutando il disegnatore nella regia della tavola. Credo che certe sequenze, giochi di telecamera che zoomano sui personaggi o si allontanano da essi, non sarebbero state possibile senza la capacità visionaria e di visualizzazione della tavola di Sclavi. Ovviamente certi elementi li ho capiti con gli anni, ma credo che a livello inconscio sia riuscito fin dall’inizio a cogliere questi aspetti nelle storie di Sclavi, ed è per questo che fin dal primo albo ho amato il suo Dylan Dog.
Quali sono ancora oggi i punti di forza di questa serie?
I punti di forza di Dylan, dopo tanti anni, credo che siano ancora l’ironia (anche se negli ultimi anni l’ironia si è limitata sempre più alle sole battute di Groucho), il suo essere un antieroe e la possibilità di vivere con lui storie sempre al limite tra incubo e realtà.
Come abbiamo detto hai lavorato su molte testate Bonelli ma, nonostante ne fossi un lettore, non ti è mai capitato di confrontarti con Dylan. Hai mai pensato di proporti per questa testata? Potessi scegliere, che tipo di storia di Dylan di piacerebbe disegnare?
Propormi no, ma mi piacerebbe molto disegnare un Dylan Dog. Per le caratteristiche della storia, me ne piacerebbe una vecchio stile, splatter, ma con una grande carica ironica e con personaggi surreali. Una storia che possa anche raccontare qualcosa di importante, ma senza bisogno di prendersi troppo sul serio. Io amo il Dylan surreale, quello che si innamora all’istante di ogni sua cliente e che ha una mira eccezionale quando Groucho gli lancia al volo la pistola. Amo il Dylan che risolve un caso quando ricorda quell’elemento che aveva notato fin dall’inizio della storia ma che il cervello aveva accantonato. E amo il Dylan che nonostante non sia un uomo d’azione, vive anche storie dinamiche. Si arrampica su per un pozzo (Il ritorno del mostro), corre inseguito da un “terminator” (Killer!), decapita al volo vampiri (Vivono tra noi), rimane appeso ad un grattacielo (Ai confini del tempo) e salva il mondo dall’anticristo (Maelstrom)… solo per citarne qualcuna.
Anche se non sulla testata regolare, hai comunque disegnato il nostro amato Dylan per illustrazioni e per la copertina di questa rivista. Come è stato disegnare Dylan per la prima volta? Sei partito nuovamente da Rupert Everett? Hai creato subito una tua versione o ti sei ispirato alla caratterizzazione grafica di qualche tuo collega?
Se si escludono le centinaia di Dylan fatti ai tempi della scuola, quando ero solo un lettore, negli ultimi anni le volte in cui mi è capitato di disegnarlo è sempre stato per sfizio personale e la mia visione è quella dei primi albi: viso lungo, zigomi sporgenti, capelli arruffati. Quando mi è stato chiesto di realizzare l’illustrazione per i Dylandogofili mi sono però posto il problema di disegnarlo con una caratterizzazione più attuale. Fondamentalmente un Dylan più somigliante a Rupert Everett di quanto non lo fosse i primi anni: i capelli più lisci e un viso lungo, ma con zigomi meno accentuati. Quel Dylan però non mi piaceva e quindi sono tornato alla mia visione e mi sono ispirato alle prime copertine di Claudio Villa.
Quali sono state le principali fonti di ispirazione queste due copertine?
Le due copertine, che ti confesso mi sono molto divertito a pensare e disegnare, le ho dedicate alla prima storia di Dylan che ho letto e ad Alan Davis. Se per la prima cover ho citato il Killer!, dell’albo numero 12, per la seconda ho utilizzato i Warwolves, creature apparse nella serie Excalibur di Alan Davis e Chris Claremont. Alan Davis è uno dei miei autori preferiti, sceneggiatore e disegnatore inglese, creatore delle serie Excalibur e ClanDestine, oltre ad aver sceneggiato e disegnato innumerevoli personaggi e serie della Marvel e della DC. Excalibur è ambientata a Londra e Davis è uno sceneggiatore dotato di grande ironia e quindi è scattato meccanico dedicargli almeno una delle due copertine di Dylan.
Tornando invece ai tuoi progetti più recenti, cosa dobbiamo aspettarci da Adam Wild?
Adam Wild sarà una serie di grande avventura, concepita con un linguaggio moderno come Manfredi ci ha abituati da sempre. Per quanto riguarda il mio numero, ci sarà anche un’impostazione della tavola differente dal solito, con molti campi lunghi e panoramiche che permettano di valorizzare le scene d’azione e di ambiente. Ovviamente grande importanza e peso l’avrà la location, esotica ed affascinante, sia dal punto di vista grafico per il disegnatore, che per il lettore da leggere.
Quali sono state le tue principali fonti di documentazione?
Ormai da qualche anno utilizzo molto e quasi unicamente immagini che trovo in internet.
Oltre alle immagini, cerco anche film o serie che possano aiutarmi per le location e la caratterizzazione dei personaggi. Per lo studio di Adam Wild, per esempio, ho cercato e guardato molti film sia per il cinema che per la televisione, da quelli dedicati a Henry Stanley e David Livingstone a La mia Africa.
A cosa stati lavorando attualmente e quali sono invece tuoi sogni/progetti per il futuro?
Ho appena terminato la mia prima storia di Tex e sto per iniziare un nuovo progetto per la Francia, sempre su Sherlock Holmes e per la Soleil. Dopodiché credo che tornerò a lavorare per la Bonelli.