Come penso ormai sappiate, da diversi anni collaboro con la rivista Dylandogofili realizzando per ciascun numero l’intervista all’artista della copertina. Spesso tali interviste vengono pubblicate sulla rivista in versione ridotta e riproposte tempo dopo qui sul blog in versione integrale. Ecco l’intervista al fumettista Daniele Bigliardo, pubblicata sul numero della fanzine n. 12 dedicata a Dylan Dog.
Nato a Napoli nel 1963, Daniele Bigliardo è uno dei principali disegnatori di Dylan Dog, con una ventina di storie all’attivo.
Daniele, ancora prima di occuparti professionalmente di fumetto, hai lavorato per anni come scenografo teatrale. Cosa ci puoi raccontare di questa esperienza? Che influenza ha avuto sulla tua carriera fumettistica?
Un’esperienza fantastica per un ragazzo di diciassette anni che, entusiasta del disegno, scopre un mondo, quello del teatro di avanguardia nascente in quel periodo, di dirompente creatività. Facevo parte del gruppo FalsoMovimento fondato dal regista Mario Martone. La corrente artistica di cui faceva parte il gruppo – e che sarà denominata Nuova Spettacolarità – stravolgeva le regole del teatro per contaminarlo con il cinema, il fumetto e l’arte moderna: un melting pot esplosivo che genererà molti dei fenomeni mediatici degli anni successivi. Aver fatto parte di quel momento, che posso definire storico, mi rende orgoglioso e sono sicuro mi abbia mostrato il nostro media preferito sotto una luce diversa: il fumetto non più inteso come “giornalino” ma considerato nella sua essenza di linguaggio in grado di esprimere un pensiero originale e diffondere cultura.
Il mese scorso sono stato invitato alla prima di un rifacimento del primo spettacolo a cui lavorai: Tango Glaciale. I ragazzi, che hanno operato la paziente ricostruzione del materiale scenografico e sonoro e riproposto con una cura filologica spaventosa (e che mi hanno accolto da maestro), mi hanno confessato di aver affrontato l’impegnativo lavoro per il desiderio di vedere uno spettacolo di cui avevano sempre sentito parlare, ma che per la loro tenera età non avevano mai potuto vedere. Il mio ingresso nel mondo artistico, come vedi, è stato un ingresso col botto.
Nello stesso periodo hai lavorato nella pubblicità fondando un’agenzia pubblicitaria. Di cosa ti occupavi esattamente?
Credo fermamente che la pubblicità rappresenti una forma di comunicazione potentissima per la sua vicinanza al mercato. Certo, proprio questa vicinanza la rende spesso mera servitrice dello stesso ma bisogna ricordare che gli artisti di un tempo erano i fornitori dell’aristocrazia e del clero. Nonostante questa diretta dipendenza dai poteri forti essi però hanno saputo, tramite le loro opere, lasciarci qualcosa di più che il semplice messaggio divulgativo che la committenza gli richiedeva.
Ecco, sotto questo profilo, credo che chiunque voglia operare nel campo della comunicazione debba interessarsi alla pubblicità per acquisirne i meccanismi e sviluppare una propria posizione morale rispetto alla prassi pubblicitaria. Detto questo, nell’agenzia mi occupavo un po’ di tutta la parte creativa evitando accuratamente la ricerca della clientela.
Teatro, pubblicità, fumetti e poi insegnamento con la Scuola Italiana di Comix: dove trovavi il tempo e le energie per fare tutto?
La passione è un serbatoio di energie infinito. Quando mi si chiede quale sia la qualità più importante per diventare un buon disegnatore la mia risposta ovvia è: “la passione”! Solo “la passione” ti permette di lavorare senza interruzione giorno e notte e solo “la passione” potrà guarirti le ferite che rimedierai certamente lungo il percorso. Naturalmente questo non vale solo per il disegno, ma quasi per tutte le attività umane che, spinte come sono oggi alla ricerca della massima qualità, richiedono uno sforzo ed un’abnegazione fuori dal comune. In realtà, la chiamo “passione” perché rivolta ad un’attività poco nociva ma che non si differenzia per nulla dalla “mania”.
Se non vado errato, i tuoi primi fumetti sono nati all’interno di riviste quali Linea Chiara e Trumoon. Cosa ricordi di quel periodo?
Anche per quanto riguarda quella fase della mia vita nutro un sentimento nostalgico che probabilmente è legato all’età che avevo in quegli anni, ma posso dire sicuramente che gran parte di quello che faccio oggi affonda le radici in quell’esperienza. Per le testate che citi nella domanda valgono considerazioni molto diverse: se per una, infatti, ero grafico ed autore di testi (Linea Chiara era infatti una rivista di critica del fumetto) per l’altra ero autore di fumetto. Trumoon infatti era una rivista di fumetti a pieno titolo e neppure troppo amatoriale considerando il fatto che il 90 percento degli autori che vi hanno pubblicato lavorano oggi nel settore ai massimi livelli.
Forse varrebbe la pena di spendere due parole su cosa sia cambiato oggi per un appassionato che voglia intraprendere un’esperienza come la nostra. La presenza di internet faciliterebbe gran parte del lavoro: il contatto con gli autori (io stesso sto facendo l’intervista tramite email), i costi per la stampa, la distribuzione, la ricerca di materiali… Al contempo, però, di sicuro farsi largo in una rete così affollata non sarebbe per nulla semplice. Aggiungiamo poi che, data la facilità con la quale si possono avere contatti e informazioni, teoricamente ognuno potrebbe farsi una propria rivista. Ci si domanda insomma: “se internet ha sostituito il lavoro svolto dalle fanzine in quegl’anni, quale sarebbe un ruolo possibile per le fanzine del terzo millennio?”.
In quegli anni molti autori si facevano le ossa su fanzine e riviste dove arrivavano a lavorare spesso da autodidatti; oggi invece i ragazzi escono dalle scuole di fumetto e possono mettersi in mostra con auto produzioni o pubblicando sul web i loro progetti.
Cosa è cambiato? Riuscire a fare del fumetto un lavoro, era più facile prima o lo è più adesso?
Se mi chiedi nell’immediato ti rispondo che la situazione è certamente più caotica. Mi spiego meglio: ai miei tempi, il numero di persone che volevano fare fumetti era inferiore e nella fattispecie quando sono entrato in Bonelli la casa editrice era in espansione grazie al quel vero e proprio miracolo editoriale che è stato Dylan Dog. Mi risulta semplice risponderti che certamente era molto più semplice allora intraprendere questa professione poiché oggi la fluidità del mercato in pieno cambiamento pone seri dubbi su quale possa essere l’equilibrio futuro del media e della sua diffusione.
Ne discende quindi che gli editori siano in subbuglio nel tentativo di comprendere, il più presto possibile, le strade più convenienti da percorrere. Gli esperimenti non si contano e la battaglia all’ultima novità riempie gli scaffali di mostre e librerie. Restano coinvolti naturalmente anche gli autori che in mezzo al mare magnum delle iniziative si tuffano a capofitto rischiando l’osso del collo. Tutto questo però deve fare riflettere chi opera nell’ambiente. Bisogna comprendere che se da una parte si assiste al crollo di un mondo da qualche altra parte un nuovo mondo sta nascendo. Questo nuovo mondo ancora acerbo può, in questo stesso momento, essere colonizzato.
Certamente noi anziani siamo svantaggiati, non comprendendo nel profondo le logiche del web, ma dalla nostra abbiamo l’esperienza per affrontare più a cuor leggero un lavoro complesso come quello dell’autore. Internet sta rivoluzionando ogni singolo attore della comunicazione non risparmiando nessuno, dal cinema al fumetto alla televisione, ed appare difficile oggi tracciare un quadro della situazione e tantomeno prevedere un possibile assetto futuro dei settori e dei mercati a loro legati. Una qualsiasi persona che voglia imparare l’arte del disegno oggi deve essere disposta, partendo da un punto qualsiasi, a mettesi in gioco ogni giorno lasciandosi guidare dal flusso della trasformazione e, perché no, cercando di trarre vantaggio da esso invece che subirlo passivamente .
Quando e come hai capito che proprio il fumetto sarebbe stato la tua strada?
Abbiamo parlato delle diverse esperienze che hanno contraddistinto la mia evoluzione artistica e naturalmente ci si chiede perché tra tutte le attività io abbia scelto proprio quella di fumettista. Ebbene la risposta è semplicissima: dopo sposato non potevo più permettermi attività come il teatro, che mi costringeva a lunghe tournee, o come la pubblicità, troppo mutevole dal punto di vista degli introiti. Ben altra faccenda era invece il lavoro per la Bonelli che mi assicurava lavoro continuativo, sedentario e, perché no, anche una certa dose di prestigio. Ma non bisogna credere che io abbia completamente smesso di cercarmi altri impegni. Scorrendo il mio curriculum, infatti, potrai trovare spettacoli teatrali, cartoni animati, lavori di grafica e impegni da docente realizzati durante la mia esperienza bonelliana.
Nella tua carriera, una delle pietre miliari è senza dubbio l’esordio su Dylan Dog. Come è successo? Ti sei proposto tu o ti ha contattato qualche sceneggiatore?
Certamente ero felice di essere considerato in grado di portare avanti le storie di quello che già era una icona del fumetto italiano ma, come accennato più su, al tempo la situazione era più rosea di quella attuale: la concorrenza era minore. Oserei addirittura dire che per un editore in espansione come era Bonelli in quel momento, c’erano non poche difficoltà a reperire disegnatori professionisti o sceneggiatori in grado di svolgere il compito in autonomia. Proprio per questo Mauro Marcheselli, l’allora direttore editoriale della Bonelli, chiese a Bruno Brindisi, capostipite di una generazione di disegnatori e sceneggiatori nota come “scuola salernitana”, se tra le sue conoscenze fosse rimasto ancora un disegnatore da contattare. Bruno fece il mio nome, che già era noto a Tiziano Sclavi per via della sua passione per il personaggio di Billiteri edito dall’Intrepido in quegl’anni e da me disegnato. A causa di queste felici convergenze il mio ingresso in Bonelli fu praticamente automatico.
Da quel primo Dylan Dog a oggi sono passati, ridendo e scherzando, oltre vent’anni. Quando ti capita di riguardare le tue tavole di quei primi numeri, che sensazioni provi? Cosa ne pensi di quel Bigliardo poco più che ventenne?
Non ho mai amato le mie tavole e credo che questo dipenda dal mio modo di migliorare. Il fatto è questo: se un disegnatore vuole migliorarsi è costretto ad individuare gli errori che commette senza pietas e senza sconti per poi intervenire e correggere il tiro. Questa attività è costante e copre tutte le fasi della lavorazione, dalla matita alla china. È chiaro quindi che, quando riguardo il mio lavoro, non veda altro che gli errori! Per quanto riguarda nello specifico tavole di più di vent’anni fa, questo effetto è molto affievolito, ma viene sostituito dal ricordo di quello che ero a quel tempo, dei miei sogni, del mio entusiasmo, delle mie aspettative e della mia ingenuità. Impossibile anche in questo caso, avere uno sguardo oggettivo su quei lavori.
Ad oggi hai disegnato per l’Indagatore dell’Incubo circa una ventina di storie tra serie regolare e speciali. Qual è la storia che ti messo più in difficoltà? E quella a cui sei più affezionato?
La storia che più mi ha impegnato è stata sicuramente Al servizio del caos [n. 341, gennaio 2015]: era la prima volta infatti dopo vent’anni che avevo una scadenza. Prima di allora in realtà la Bonelli, sicura della forza della testata, metteva in cantiere più storie e, in assenza di una continuity, non v’era necessità di sottoporre a stress particolari i disegnatori. Con l’avvento di Roberto Recchioni e il conseguente progetto di rilancio, le cose cambiarono drasticamente e mi sono ritrovato ad un mese dalla pubblicazione a dover disegnare più di trenta tavole.
La storia a cui sono più affezionato è certamente Il canto della sirena [Gigante n. 5, novembre 1996]. Mentre la realizzavo, infatti, ero in attesa della mia primogenita che appare anche in una tavola interna. Indimenticabile.
Negli anni hai lavorato con molti sceneggiatori differenti, ma molto spesso hai fatto squadra con lo sceneggiatore Giuseppe De Nardo. È una coincidenza o vi piace particolarmente lavorare assieme?
Non parlerei di coincidenza. Ti ho raccontato pocanzi che il mio ingresso in Bonelli è dovuto in parte alla passione che Sclavi nutriva per Billiteri, il personaggio che disegnavo per la Universo, ma non ti ho detto che lo sceneggiatore ed inventore dello stesso era il mio amico De Nardo. Io e Giuseppe siamo amici sin dai tempi della fanzine Trumoon. Quindi la nostra collaborazione era già ben rodata ai tempi dell’ingresso in Bonelli ed è stato naturale continuare a collaborare anche su Dylan Dog.
Da un punto di vista grafico, come hai creato la tua interpretazione del personaggio? E negli anni come l’hai modificata?
Per ordine della redazione, i riferimenti grafici al tempo in cui sono entrato nello staff erano Bruno Brindisi o Giovanni Freghieri: io, per affinità, scelsi Bruno. Ad ogni modo guardo un po’ a tutti perché credo che ognuno dei disegnatori della serie abbia contribuito e contribuisca a fare di Dylan uno dei fumetti più interessanti in edicola.
Ogni volta che disegno Dylan faccio mille ragionamenti sperando di raggiungere una mia versione definitiva. Temo, però, che la verità sia che la mia indole di disegnatore è volubile e dipende dallo stato d’animo del momento, cosa che mi impedirà di chiudere la ricerca del volto perfetto e mi terrà impegnato in una evoluzione senza fine.
Come lettore, quando hai iniziato a seguire Dylan Dog?
Ricordo di aver comprato addirittura il numero 1 di Dylan e di averlo trovato “non troppo interessante”. A quei tempi ero ancora amante del fumetto d’autore. Amavo disegnatori come Moebius, Garcia Mozos, Jean Claude Claeys e avevo cominciato a leggere i fumetti Bonelli da poco tramite alcune storie di Martin Mystere.
Un tizio che imprecava dicendo “Giuda ballerino“, suonava il clarinetto nei momenti peggiori e aveva un assistente sopra le righe come Groucho mi dovette sembrare inutilmente strampalato. Più avanti, però, grazie a storie come Memorie dall’invisibile e a disegnatori come Giampiero Casertano, che avevo già avuto modo di vedere all’opera su Martin Mystere, ho iniziato a comprarlo e, complice un nascente cinema dell’orrore di qualità, mi sono fidelizzato.
Insieme a Bruno Brindisi, sei stato scelto per disegnare il cross-over tra Dylan Dog e Harlan Draka alias Dampyr. Conoscevi già la serie di Mauro Boselli? Quali autori delle serie ti hanno influenzato di più per la tua versione dei personaggi principali?
La conoscevo ma non avevo letto abbastanza da comprenderne la complessità. Il mondo che Mauro ha creato è ricco di personaggi e regole ed è immerso in una continuity inusuale per le serie bonelliane. Affrontarla d’emblée ha rappresentato un problema per me che non faccio studi ma imparo direttamente sulle tavole. Aggiungiamo poi che la mia parte è stata scritta da Roberto che non sempre è ligio ai dictat di Mauro ed il quadro è completo. Per quanto riguarda gli autori che ho preferito guardare direi senza dubbio Majo. Lo considero un grande disegnatore e forse l’unico ad interpretare il volto di Ralph Finnes in maniera interessante.
Cosa ne pensi dell’idea di mischiare gli universi narrativi di fumetti differenti?
L’operazione in se per se è più che legittima. Come al solito la qualità sta nel contenuto non nel recipiente. Se, infatti, in nome di una operazione si svilisce la qualità della narrazione, tutto assume l’aria di una bieca operazione commerciale dove si sacrifica all’altare delle vendite la storia editoriale di un personaggio.
A proposito di mischiare “universi”, a te è già capitato di realizzare a fumetti opere teatrali, vedi le commedie di Eduardo De Filippo, così come più recentemente di trasportare a fumetti un personaggio letterario come il Commissario Ricciardi. Oggi il fumetto vive un continuo “prendi e dai” con altri media, in particolare con il cinema: secondo te qual è la chiave per far sì che una riduzione o trasposizione viva di vita propria senza essere solo una copia di qualcos’altro?
Le buone storie non sono esclusiva di un media. È più che giusto, quindi, che le narrazioni siano trasversali ai mezzi di comunicazione. Tuttavia la peculiarità di ogni media deve essere tenuta in conto. Il discorso è molto complesso e tenterò di essere un po’ più chiaro. Hai citato l’adattamento delle commedie di Eduardo: ebbene solo chi lavora nei fumetti da un po’ può rendersi conto di quanto il copione di una commedia somigli ad una sceneggiatura di un fumetto. Il testo teatrale infatti è composto per lo più da dialoghi diretti, che sono le battute degli attori, e da agili consigli sulla recitazione e sulla messinscena. Quindi, fatte salve alcune differenze (dall’assenza del sonoro nel fumetto e alla possibilità dello stesso di cambiare scenografie senza costi aggiuntivi), la trasposizione risulta abbastanza agevole e priva di rischi di travisamento.
Cosa ben diversa è adattare la letteratura che è composta, invece, in gran parte di pensieri ed elucubrazioni del protagonista. In un libro ci si trova nella mente del protagonista, si osserva il mondo dai suoi occhi e si valutano fatti e azioni mediante i suoi ragionamenti. Cosa che nel fumetto non si può fare, sia perché le parole occupano spazio e sia perché il punto di vista è preferibilmente esterno al protagonista, che guardiamo agire e parlare dalla visuale della “telecamera”. Questo ci porterà a perdere una percentuale altissima dell’opera di provenienza e probabilmente alla difficoltà di far comprendere le ragioni profonde di un comportamento o di una scelta.
In sostanza ci troviamo di fronte ad una sostanziale riscrittura del racconto non priva di rischi e affidata esclusivamente alla sensibilità ed alla dimestichezza dell’autore della stessa. In questo caso sarebbe auspicabile affidare il compito a chi abbia già dimostrato di padroneggiare con personalità la narrazione in quel media così da garantire almeno un buon prodotto, al di la della sua aderenza all’opera di provenienza.
Ti vedremo sulle pagine del Commissario Ricciardi anche come disegnatore o per ora ti “limiterai” alle copertine?
Assolutamente si! Dopo il primo volume ed una “breve” sull’almanacco, sto realizzando l’adattamento del quinto romanzo Per mano mia, primo della trilogia sulle festività del Commissario(nel mio caso siamo a Natale).
Che differenza c’è tra disegnare una tavola a di fumetti e una copertina?
Si dice spesso che una copertina deve essere iconica. Con questa espressione credo si alluda al fatto che l’immagine debba assurgere a narrazione. In un solo quadro un intero mondo. Si deve intuire la storia, incuriosire e perché no, stupire. Tutto in un solo fugace colpo d’occhio. Ognuno crede di avere la sua ricetta, ma in fondo guardando un gran numero di copertine si fa presto a ricavare semplici ricette per un risultato accettabile. Il resto lo fa lo stile dell’autore.
Se ce lo puoi dire, a cosa stai lavorando attualmente?
Oltre al Commissario Ricciardi, sto realmente pensando di realizzare un volume tutto mio da proporre ad un editore.