Intervista a Lola Airaghi, disegnatrice di Brendon

Lola-Airaghi-Premio-CoccoBill-2005Nel numero 5 della fanzine Dylandogofili avevo intervistato Lola Airaghi, disegnatrice tra le altre cose di Brendon e Legs Weaver. Sulla fanzine era stata pubblicata solo una parte dell’intervista, ovvero la parte che si riferiva principalmente a Dylan Dog. La seconda parte, relativa all’intera carriera di Lola, sarebbe dovuta essere pubblicata in un secondo momento sul mio blog.

La chiusura dello stesso ha portato a non poter mantenere la promessa… almeno fino ad ora. Ecco quindi l’intera intervista a Lola, ovvero sia la parte già pubblicata, sia la parte inedita.

Immagino che sia stata la passione per il disegno e i fumetti a portarti ad iscriverti alla Scuola del Fumetto di Milano. Guardandoti indietro, quanto è stata importante la Scuola nella tua formazione artistica e professionale?

Guardandomi indietro mi commuovo… che anni! La scuola è stata assolutamente luogo di scambio, sarà sicuramente servita per quel che una scuola deve preparare, ma la mia fortuna son state due persone che ho incrociato nella mia strada. La prima è Giampiero Casertano, il primo insegnante: quanto ci teneva allo studio della luce, ho fatto talmente tante prove di segno per rendere al meglio il volume che doveva per forza entrarmi in testa! Aveva un entusiasmo… per lui era la prima esperienza da insegnante. Mi bocciò con tanto di spiegazione: “Se non disegni non mangi, il talento c’è, basta cazzeggiare, poi vedi tu”. Fu per me un’illuminazione. Riprovai e arrivò la seconda persona che ricorderò sempre: Enea Riboldi. Lui puntava sul gusto ed il metodo, si presentò a noi mettendosi in piedi sulla cattedra (non era ancora uscito il film “L’attimo fuggente”) e spiegandoci che ci sono diversi punti di vista da cui guardar la vita e noi dovevamo trovare il nostro. Furono anni indimenticabili.

Spesso si tende a differenziare i fumettisti dal tratto umoristico da quelli realistici. La tua carriera è legata strettamente al fumetto realistico, però i tuoi esordi sono stati umoristici disegnando “Denver” e “Il Conte Dacula” per “Il Corrierino”. Cosa ricordi di quel periodo?

Vero, ho sempre amato il fumetto realistico, quello del tratto che descrive tutto per bene ciò che il lettore deve guardare, ma rimanendo nell’ambito scolastico ci fu un occasione per me unica: Il Corriere dei piccoli venne alla scuola per cercare esordienti disposti a mettersi in gioco in ambito lavorativo. Enea, che come spiegavo prima era un promotore di entusiasmo e praticità, stimolò a tentare. Le prove furono prese seriamente e cominciai a lavorar per Denver il Dinosauro. Non sapevo nulla di lavoro e fu per me diciassettenne esperienza utile per quel che voleva dire tempi di consegna ed esigenza narrativa. Ogni settimana si doveva uscire in edicola, non c’era tempo di far grandi ricerche, si doveva disegnare bene ciò che veniva richiesto. Fortunatamente mi veniva facile il segno umoristico e la collaborazione durò per diversi anni, fino alla chiusura della rivista. I personaggi che ho più amato ai tempi erano il Conte Dacula e Fantozzi, personaggio di Paolo Villaggio studiato da me in versione fumetto.

Hai mai sentito il desiderio di tornare a fare fumetti per ragazzi o preferisci lavorare su serie e ambientazioni più adulte?

Per come era strutturato il Corrierino non ne sento la mancanza. Mi piacerebbe avvicinarmi ad un pubblico molto giovane ma con storie totalmente differenti: sono una nostalgica, il modello sarebbe il vecchio Corriere dei Piccoli, con storie d’avventura, di vita quotidiana, con un linguaggio facile da far entrar nel mondo della fantasia i ragazzi… questo sì.

Se vogliamo mettere una pietra miliare nella tua carriera, penso che si possa scegliere il momento del tuo ingresso nella Sergio Bonelli Editore, casa editrice che ha visto la tua maturazione e consacrazione artistica oltre alla notorietà verso un pubblico più vasto rispetto a quello delle tue serie precedenti. Ci puoi raccontare come sei entrata “alla Bonelli”?

Bene… lo raccontai già in diverse occasioni, ma ricordarlo mi diverte ogni volta. Era il 1995, usciva in edicola “ESP” un fumetto che leggevo con entusiasmo e passione… volevo disegnarlo e preparai delle prove con studio di personaggi. Ero talmente entusiasta che temevo di portar qualcosa che non andava bene. Ai tempi ero in uno studio (lo studio Balloon) insieme ad Anna Lazzarini (“Legs Weaver”, “Brad Barron”, “Nathan Never”) ed altri usciti con me dalla scuola. Anna m’informò che un certo Antonio Serra stava cercando disegnatori per una nuova serie e che l’aveva appena presa. Chiesi un appuntamento e incontrai Antonio. L’incontro fu subito segno di ciò che sarebbe stato… si mise dietro alla porta ed appena entrai mi accolse con tanto di spada laser da Jedi e mi disse “Che la forza sia con te!” (adoro quell’uomo!). Bene, gli dissi che non ero lì per lui ma che volevo un parere professionale sulle prove per “ESP”. Allibito e perplesso Antonio guardò i disegni e disse “Tu sei matta, queste vanno molto bene, vai là, vedi cosa dicono e se per qualsiasi motivo non vanno bene, torna da noi che qui c’è del lavoro per te”. La casa editrice di “ESP” vide le prove ma stava chiudendo la serie. Tornai da Antonio e feci le prove per “Legs Weaver”. Anche Giancarlo Berardi mi chiese di collaborare per la sua futura testata: le prove per “Julia”, andarono bene ma c’era ovviamente da lavorarci molto, le esigenze grafiche e narrative per quel fumetto erano alte e io volevo lavorare subito. Scelsi allora di lasciar stare e tornai definitivamente con Antonio Serra che già sapeva che avrei collaborato per lui… la forza dello Jedi, mai metterla in discussione 🙂

La prima serie Bonelli su cui hai lavorato è stata quindi “Legs Weaver”. Cosa ne pensi di questo personaggio e di questa serie? Ti piaceva già prima di lavorarci?

Legs Weaver” apparteneva ad un genere che non ho mai seguito, la fantascienza pulita. Ricordava poi alcuni manga, che io non leggevo preferendo il fumetto francese e argentino. Fu Antonio a farmi conoscere ed apprezzare “Star Trek” ed molto altro… Per me la fantascienza era “Blade Runner”: cupa malinconia, androidi decadenti… Legs era viva, dinamica, colorata se pur in bianco e nero. Penso di aver mantenuto sempre il mio gusto un po’ noir: lei molto mascolina, poco formosa per quel che il personaggio richiedeva. Forse oggi Legs la farei più sensuale… chissà. Fu il primo fumetto a far entrare una quantità notevole di disegnatrici donne in Bonelli: potevamo esprimere a nostro gusto vignette con una protagonista pronta a farsi raccontare nelle più svariate situazioni. Ho sempre ammirato la determinazione di Antonio Serra nel promuovere questo personaggio, affiancato alla sua compagna May, dove il corpo era poesia per il lettore.

Nella tua permanenza nello staff di “Legs” hai lavorato con quattro sceneggiatori differenti: Michele Medda, Stefano Piano, Angelica Tintori e Antonio Serra. Come ti sei trovata con loro? C’è qualche differenza sostanziale nel loro modo di sceneggiare?

Le storie che ho preferito disegnar di “Legs” sono state scritte da i due sceneggiatori più vicini al mio gusto (noir) narrativo: “Love Story” (“Legs” n° 42) sceneggiatura di Michele Medda e “Quinto: non uccidere” (“Legs” n° 80) sceneggiatura Angelica Tintori. La diversità tra i quattro sceneggiatori erano evidenti: Stefano Piani, il primo, (“Legs” n° 33 “Operazione Striker”) era concentrato sull’azione, a me lontana come narrazione. Bravo nell’accompagnare il disegnatore, ma difficile trovare l’effetto giusto. Scoprimmo man mano i punti di forza di uno e dell’altro… Con Michele Medda ci fu subito sintonia. Lui ti fa entrare prima nella storia, ti fa conoscere i personaggi e capisci perché li devi muovere in tale contesto. Prepara bene la sequenza e anche se non hai documentazione riesci comunque a muovere i personaggi in modo credibile. Con Antonio Serra (“Legs e le Paladine” n° 4 “Il ritorno dei demoni”) fu sperimentazione. Lavorai sulle matite di Anna Lazzarini e Antonio si divertì tantissimo: per dire, lui ci mimava la sequenza personalmente! È stimolante lavorare con Antonio, ma è sempre troppo impegnato per avere il giusto tempo per assorbire tutte le idee che gli passano per la testa. Con Angelica avevamo trovato un equilibrio perfetto. Volevamo raccontare una storia che facesse riflettere su una realtà – la pena di morte – senza prender posizione. Speravamo che il lettore avesse ben chiaro che esisteva quella realtà di fatto… non fu semplice esprimere un concetto senza prendere posizione. Fu l’ultima storia che disegnai per “Legs”… sentivo l’esigenza di esprimere nel disegno l’atmosfera… quella che piaceva a me… un po’ sul confine tra il reale e l’irreale…

Lola-Airaghi-Brendon

È per questo che passasti a Brendon?

Inizialmente non avrei mai pensato di spostarmi da “Legs”, poi avvenne l’incontro con Claudio Chiaverotti ad una fiera dove mi propose di passar tra il vento del deserto in quel di “Brendon”. Come potevo dir di no! “Legs” aveva sicuramente altro da raccontarmi ma “Brendon” era un personaggio che rispecchiava perfettamente il mio gusto. Le atmosfere, lo stile del vestiario, le storie inquietanti di persone reali filtrate magistralmente da una dose di fantasia credibile, follia e folletti, incantesimi d’amore e streghe, di tutto e di più. Poi lui, Brendon, esteticamente bello da disegnare. Ero felice e volevo mettermi subito al lavoro.

Come è stato lavorare con Claudio Chiaverotti?

Con Claudio mi sono sempre trovata benissimo, ha una capacità di farsi capire nelle sue sceneggiature e raramente mi son trovata a veder una sequenza in modo differente. Lui è uno sceneggiatore che fa il suo e lascia al disegnatore ciò che del disegnatore compete. La libertà creativa nel decidere un ambiente piuttosto che un altro è stimolante, ovvio che dà indicazioni per quel che serve alla narrazione della storia, ma si affida totalmente alla capacità interpretativa del disegnatore. Almeno, con me è così. Poi il suo gusto lo esprime, ci si sente e si trova un punto d’unione per rimaner nella giusta sintonia collaborativa. Questo l’ho sempre apprezzato e lo ringrazio.

È stato più semplice lavorare sempre con lo stesso sceneggiatore o preferivi alternare approcci differenti come durante il periodo di “Legs”?

Dopo anni di esperienza lavorativa, riscontro che ci siano i pro e i contro a lavorare spesso con la stessa persona. Stare per molto tempo con lo stesso sceneggiatore è favorevole per la comprensione immediata di ciò che uno vuole dall’altro. Per contro si corre il rischio di adagiarsi a tal punto che a volte lo stimolo a cercar qualche alternativa viene a mancare. Con “Legs” era un continuo risintonizzarsi con una sensibilità differente, stimolante ma a volte incomprensibile. Una volta che il personaggio lo fai tuo, lo vuoi muovere nel contesto che più ti appartiene e se va al di fuori di quello che ti trasmette lo senti meno e lasci un certo distacco dal protagonista e ti avvicini più ai personaggi di contorno o addirittura all’antagonista. Comunque dopo molto tempo che si fa un personaggio la voglia di prendere una pausa, anche solo per capire cosa potresti inserir di nuovo, fa bene al disegno.

Una pausa come il tuo debutto in qualità di disegnatrice di “Dylan Dog” sul “Color Fest” numero 6 “Femme Fatales”. Anche dopo 15 anni di carriera in Sergio Bonelli Editore, immagino che lavorare su Dylan, una delle testate di punta della casa editrice e del fumetto italiano in generale, sia stata una bella soddisfazione…

Certo che è stata una soddisfazione! Dylan l’ho visto ancor prima che uscisse in edicola: avendo Giampiero Casertano come insegnante, era inevitabile che qualche tavola ci venisse mostrata… Nella scuola insegnavano anche Ambrosini e Stano. Il progetto era entusiasmante da parlarne come novità bonelliana a tutti gli effetti, poi creato e sceneggiato da Sclavi… non poteva passar inosservato… Dylan non l’ho visto come un traguardo, ma come una bella responsabilità nei confronti dei lettori. Pensavo di essere immune a questo e invece ci son caduta da subito anch’io.

Come sei stata coinvolta in questo progetto?

Una telefonata con la domanda se mi poteva interessare disegnare Dylan Dog per il Color Fest… Anche in passato si pensò a farmi fare una storia, ma avevo lasciato da poco “Legs” e incominciato “Brendon”: non era il momento per altri spostamenti.

Lola-Airaghi-Dylan-Dog-illustrazione-a-colori-2007
Illustrazione Dylan Dog 2007

Per studiare il personaggio, da cosa sei partita? Sei tornata all’attore di riferimento, alla sintesi di qualche tuo collega in particolare o hai cercato da subito una tua soluzione personale?

Per me da sempre Dylan Dog ha il volto con la sintesi di Bruno Brindisi. È quello che trovo più bello e proporzionato anche se rimane molto giovane per l’età che sento debba avere. Quindi incominciai a riguardarmi i suoi volti ben bene, con il vantaggio che, avendo la linea chiara, si poteva agevolare ancor di più la resa sul “Color Fest”. Riscontrai però da subito una somiglianza troppo netta e non mi soddisfaceva: non volevo fare la copia di Bruno Brindisi, io Dylan lo sento differente. Mi piace il segno di Brindisi ma volevo un Dylan più vissuto, più maturo. Così abbandonai la documentazione iniziale e cercai foto di Rupert Everett per interpretarlo a mio modo… Niente, lo schema mentale è quello, se pur differente il mio Dylan del “Color Fest” ricordava il Dylan di Bruno. Ovviamente a me fa solo piacere sottolineare da chi presi spunto, ho grande stima per il lavoro di Bruno, ma volevo che emanasse altre emozioni. Allora guardai Giampiero Casertano, differente nello stile, per veder se trovavo soluzioni nuove… niente, ne usciva un ibrido, non sentito… Non pensavo che avrei riscontrato tanta difficoltà a rappresentarlo, nei personaggi che disegno, devo sentirne la vita prima di tutto e se non mi parlano (con i personaggi , ci parlo spesso e mi vivo una loro vita parallela mentre li disegno), non riesco poi a farli muovere nel contesto delle storie… Alla fine, convinta anche dalla destinazione che avrebbero avuto le tavole, cioè a colori e senza neri per dar atmosfera, decisi di arrendermi ed accettare il volto di Dylan preso dalle foto, dove ricordava il Dylan di Bruno. Finita la storia, incominciai però a studiarmi un Dylan che sentivo crescere man mano che lo disegnavo nelle tavole. Per le illustrazioni infatti sto dando un volto che si avvicina maggiormente a come lo sento io, più maturo… ci sto lavorando ancora e sicuramente averlo ripassato con i neri gli dona un’atmosfera maggiore. Insomma, sto iniziando a dar vita a questo personaggio che inizialmente era “silenzioso” anche se graficamente elegante.

La particolarità del “Color Fest” è ovviamente quella di essere a colori. Alcuni degli artisti coinvolti hanno colorato da sé le proprie storie mentre la tua storia è stata colorata da Stefania Faccio. Conoscevi già quest’artista? Come ti sei trovata? Le hai lasciato completa di libertà o le hai dato precise indicazioni?

La mia decisione di non colorarle è stata prettamente funzionale alle scadenze. Stefania non la conoscevo e a Giovanni [Gualdoni, NdR] ho solo detto che volevo una colorazione tipo le tavole di Brindisi e De Angelis e che mi sarei fidata. Da subito ho visto che l’intesa c’era e comunque non sono mai intervenuta sul suo lavoro anche per una questione pratica: la distanza. Avrei seguito se ci fosse modo di collaborare vicini, seguendo tavola dopo tavola tutti i passaggi, dove si può spiegar il particolare e la luce a che intensità la senti (esempio, nella prima d’apertura immaginavo l’atmosfera calda che filtrava dalla finestra con i granelli di polvere, gli chiesi di inserirli), ma lontane avrei fatto il doppio del lavoro, accorciando sempre più i tempi: un lavoro lungo e troppo interpretativo… non ne saremmo mai uscite. Quindi ci siamo fidate una dell’altra.

Avessi colorato tu la tua storia, avresti scelto una tavolozza di colore o uno stile di colorazione differente?

Direi proprio di sì. Io sono legata all’acquarello e il risultato sarebbe stato totalmente differente.

Lola Airaghi e Paola Barbato
Lola Airaghi e Paola Barbato

E a livello di sceneggiatura, come ti sei trovata a lavorare con Paola Barbato? È arrivata prima questa storia o la vostra collaborazione per la serie “Davvero”?

Con Paola ci si conosceva già molto prima del “Color Fest”. L’idea di fare una storia insieme per Dylan era già emersa ai tempi, ma come spiegai prima l’entrata da poco sulla testata di “Brendon”, non permetteva di passare da una all’altra così velocemente ed il tutto lo si rimandò al futuro… un futuro che arrivò prima di “Davvero”. Lavorare con Paola è stimolo, creatività e soprattutto entrar da subito nella storia. Ti mette lì i personaggi e pagina dopo pagina prendono vita. Hanno un anima e questo è molto importante. In più è di una disponibilità sbalorditiva, riesce ad agevolare il lavoro del disegnatore con una naturalezza familiare. E ne sa sempre una più di quelle che si possa pensare che sa. A me piace esser sorpresa e non dare per scontato quello che la storia potrebbe farti supporre.

Nel tuo futuro ci sono altre incursioni nella Londra di “Dylan Dog” o per ora ti vedremo solo su “Brendon”? Altri progetti in cantiere?

Probabile di sì. Ci son diverse proposte e preferisco non parlarne. Parlo del presente: sto finendo una storia di “Brendon”, dove un personaggio in particolare mi piace molto da disegnare… ma non anticipo per non rovinarne la lettura e le diverse sorprese che accompagneranno la storia.

Il “Color Fest” a cui hai lavorato aveva la peculiarità di essere stato realizzato da uno staff completamente femminile. Effettivamente l’esperimento ha incuriosito molto il pubblico per il fatto che a guardar bene il numero di disegnatori (e sceneggiatori) uomini in forza a Bonelli (ma questo vale anche per altre case editrici) è molto superiore a quello delle donne. Tu che sei un’eccezione a questa regola, ti sei mai chiesta il perché? Ci sono ragioni culturali che portano all’affermazione di un maggior numero di uomini rispetto alle donne? Oppure sono le ragazze che tendono per predisposizione a dedicarsi ad altre attività quali colorazione e illustrazione?

Inizio subito nel dire che il sottotitolo del Color Fest “Tutto al femminile” mi urtò inizialmente. Non riesco ancora a capire perché si possa trovare questo interesse nel distinguere a priori il disegno fatto da donne piuttosto che da uomini. Però c’è e c’è sempre stato. Molte le volte mi si è stata proposta la partecipazione a fiere in quanto donna. Non capisco. Non vedo differenza di espressione dettata dal sesso, c’è sensibilità e vita differente da individuo ad individuo, questa è la distinzione che potrei farne. Ci sono effettivamente più maschi a disegnare, ma questo avveniva maggiormente anni e anni fa, influenzato dal fatto che i fumetti in Italia erano principalmente con protagonisti alle prese in storie che riguardavano un’avventura più vicina ai canoni maschili. Poi era quasi automatico che le donne dovessero dedicare il loro quotidiano alla famiglia, tralasciando la carriera lavorativa (sono ancora forti i ruoli/simboli sulla donna = casa). Si cambia, inevitabilmente, ora vedo la situazione molto differente: la scelta di decidere è molto più personale e libera. E infatti sono aumentate anche le donne a disegnar fumetti. Io non mi son mai sentita un’eccezione, cerco di relazionarmi con i colleghi come persona che sceglie di condividere il piacere di ciò che vede e lo trasmette disegnando. Ero più combattiva prima quando mi si sottolineava che disegnavo come un uomo. Mi faceva ridere ma anche incavolare: “dipende che uomo innanzitutto… mica posso rappresentarli tutti” così rispondevo ironicamente. Io disegno con la mia personalità, il mio gusto, la mia storia. Non è sicuramente dettato da una questione di ovaie o meno. Poi se c’è chi vuol stare a passare del tempo e focalizzare il piacere di leggersi un fumetto e domandarsi se trova differenze tra un tratto femminile o maschile, sono affari suoi. Non ho più voglia di spiegare che le differenze non stanno sul sesso. Il mio interesse si sposta nel cosa vuole comunicarmi con quelle immagini, dove marcherà il segno, dove tralascerà i dettagli, quanta luce metterà per evidenziare un’emozione, che sintesi di segno avrà preso spunto…

Published By: Marco Frassinelli

Nonostante il suo lavoro di tutti i giorni sia legato alla telefonia e all'energia (www.grupporestart.it), Marco Frassinelli si occupa da anni di arte, cultura e intrattenimento, sia come blogger che come organizzatore di eventi. Ha collaborato all'organizzazione di decine di manifestazioni: Albissola Comics, Asylum Fantastic Fest, Video Festival Città di Imperia, Festival di Folklore e Cultura Horror AutunnoNero, Mostriamo il Cinema, Albenga Dreams, Fiera del Libro di Imperia... È direttore di Proxima no-profit, vice presidente del Cineforum Imperia e membro del consiglio direttivo di Ludo Ergo Sum - Tana dei Goblin Imperia e Comics & Art. Ha lavorato come blogger per Blogosfere (PianetaFumetto) e ha pubblicato su diverse riviste (L'Eco della Riviera, Tenebre", Fumo di China, Dylandogofili). Ha curato per Proxima l'editing dei libri "Sina. Je m'en fiche!" e "Io alla finestra della vita" ed è co-autore dei libri "Gibba e 'Lele' Luzzati" sul cinema d'animazione e "Sei nel West, Amigo!" sul cinema spaghetti western. È autore di articoli pubblicati su "Novissimo Zibaldino del Festival” (Mellophonium) e "L'arte del doppiaggio” (Felici Editori) e di fotografie pubblicate sul fotolibro “Gallieno Ferri – Photobook” (Forum ZTN). Ama viaggiare (è coordinatore Avventure nel mondo) e creare fotolibri dei suoi viaggi. Nel 2013 crea il sito ilblogger.it dove scrive principalmente di cinema e fumetti.

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