A due passi dal capolavoro
Confesso: alla prima veloce occhiata data allo Speciale Dampyr realizzato da Paolo Bacilieri, Gli studenti della Scuola Nera, non ero rimasto del tutto convinto, anzi – diciamola tutta – ero restato piuttosto insoddisfatto. Pareva, a quel mio primo sguardo, che troppi fossero i punti di incompletezza, le figure un po’ tirate via, i tratti a malapena abbozzati. Addirittura mi ero fatto l’impressione di una certa frettolosità esecutiva, non degna del grande disegnatore di cui stiamo parlando.
Confesso ancora: non sono del tutto convinto neppure adesso che avessi completamente torto prima… Anzi, penso che in ciò che ho detto sopra ci possa essere nonostante tutto del vero.
Sicuramente ritengo che certe vignette manchino di rifinitura e perfezionamento. Certamente alcuni volti e alcune espressioni non sono solo lineari, ma paiono addirittura schizzate via con estrema velocità. Mi si dirà: è un effetto voluto. Può essere, ma in diversi casi continuo ad avere riserve.
E tuttavia posso dire che ad una lettura attenta queste cose sono passate in secondo piano. Assolutamente relegate nell’ombra dei pensieri più inconsci dopo pochissimi momenti dal’inizio della lettura. C’è magia in questa storia, una profondissima capacità di avvincere e accattivare pagina dopo pagina. E non parlo solo della magnifica storia islandese di Mauro Boselli, che peraltro è una delle avventure più belle del Dampyr in assoluto. Parlo proprio della totale potenza affabulatoria e fascinativa creata dai disegni di Bacilieri.
Il tratto dell’autore si piega alle esigenze immaginative legate alla realizzazione dei più fantastici ambienti, rappresentati con piglio e maestria – e parlo soprattutto della tenebrosissima Svartà Skola, ma pure dei sinistri e selvaggi paesaggi della natura nordica islandese e dei caratteristici bozzetti dei centri abitati dell’isola; ma c’è anche una rappresentazione dei personaggi insieme epica e iconica, dinamica e icastica come nelle figure di un arazzo di epoca medievale, cinetica ed espressionista nella raffigurazione dei diversi demoni e delle diverse creature. Con un occhio di citazionismo colto sia all’arte iconografica di alcuni grandi maestri (vedi Alfred Kubin ed Egon Schiele – ci vedo soprattutto loro) ma anche all’identità di figure ormai entrate nell’immaginario collettivo (il direttore della Scuola Nera, Adar Melek, ha inevitabilmente le fattezze – un po’ demonizzate – dello scrittore H. P. Lovecraft, maestro della letteratura orrorifica).
Lo stesso impianto delle vignette è altamente originale ed efficace e si permette spesso delle licenze usualmente un po’ meno frequenti nelle opere degli autori di casa Bonelli: splash page, vignette a taglio verticale, composizioni di una vignetta molto ampia e altre piccole nella medesima pagina, deviazioni – in generale – dalla gabbia classica che però contribuiscono fortemente al tono fantastico dell’atmosfera della vicenda.
E dunque ad albo concluso quale sensazione resta? A quale mediazione si può pervenire fra i due punti di vista contraddittori che mi hanno toccato come lettore e che – ne sono certo dalla lettura di alcuni commenti online – possono aver sconcertato diversi lettori abituati ad un Harlan Draka ormai più tradizionale e consolidato? Ovviamente parlo a titolo personale: la reazione entusiastica prevale, domina il mio giudizio globale dell’opera e cancella l’estrema maggioranza dei dubbi che mi avevano colto in prima battuta.
Qualcuna di queste piccole incertezze però si ostina a permanere. Come ho fatto trapelare dal titolo, con questa avventura siamo senza dubbio nei territori del capolavoro. Forse soltanto (una ventina di centimetri) al di sotto della vetta… Una sola piccola impressione sottesa mi resta dentro, dunque: che quelle piccole vignette imperfette qua e là (è vero, piccole cose nel complesso della visione globale) purtuttavia avrebbero potuto essere ripulite e rifinite ulteriormente un pochino. Pochi giorni di lavoro probabilmente, ma secondo me altamente necessari. A due passi dall’opera d’arte dunque, ma – in buona sostanza opera d’arte pur sempre. E di quelle sincere e genuine, come le buone vecchie saghe islandesi di un tempo.