Da diversi anni collaboro con la rivista Dylandogofili, fanzine di ottima qualità dedicata all’Indagatore dell’incubo di casa Bonelli. Tradizionalmente il mio contributo consiste nell’intervista al disegnatore della copertina della rivista, in questo caso Luca Raimondo. Per ragioni di spazio spesso l’intervista sulla rivista può subire dei tagli: per questa ragione, qualche mese dopo l’uscita cartacea, ripresento tale intervista qui sul blog in versione integrale.
Classe 1979, Luca Raimondo lavora nel campo dei fumetti da circa 25 anni ed è uno dei più prolifici disegnatori di Dampyr. Vediamo di conoscere meglio il suo lavoro con questa lunga intervista.
Quest’anno festeggi i tuoi primi 25 anni di carriera. Tanto è passato, infatti, dalla tua prima storia breve pubblicata su L’Intrepido. Puoi raccontarci dei tuoi inizi come fumettista e di quando e come hai capito che la tua passione per il disegno sarebbe diventata anche il tuo lavoro?
Innanzitutto, prima di parlare dell’Intrepido un saluto a tutti gli “intrepidi” che leggeranno questa mia intervista! 😀
Che avrei lavorato in un ambito in cui il disegno sarebbe stato protagonista l’ho sentito fin da bambino. Non so spiegare bene come e perché, probabilmente mi sono accorto subito, grazie alle persone che mi vedevano disegnare, che avevo una predisposizione troppo evidente per finire per fare altro nella vita. In particolare, ho avuto sempre una tendenza a raccontare per immagini in sequenza, quindi il fumetto è stato l’approdo naturale. Nel ‘95, quando esordii sul’Intrepido grazie a Paolo Morales, ero in verità ancora piuttosto “acerbo”: avevo cominciato a provare a fare sul serio con il fumetto soltanto due anni prima.
Uno dei tuoi primi lavori è stato quello di illustrare alcune commedie di Eduardo De Filippo all’interno della serie “Il teatro a fumetti”. Conoscevi già l’opera di De Filippo o te ne sei avvicinato per questo lavoro? Quali analogie di linguaggio ci sono tra il fumetto e il teatro?
Come ripeto spesso per me Eduardo De Filippo è religione. Conosco bene il suo teatro fin da ragazzino e quando nel 1998 mi proposero il progetto mi vennero i brividi. Era un prodotto ufficiale, realizzato sotto la supervisione degli eredi di Eduardo e ancora oggi trovarlo in giro tra i prodotti eduardiani è per me motivo di grande soddisfazione. Se fossi nato un paio di decenni prima avrei provato a fare l’attore teatrale con Eduardo; essendo nato troppo tardi e fumettista, in un certo senso ho quasi rimediato!
Uno dei tuoi primi lavori è stato quello di illustrare alcune commedie di Eduardo De Filippo all’interno della serie “Il teatro a fumetti”. Conoscevi già l’opera di De Filippo o te ne sei avvicinato per questo lavoro? Quali analogie di linguaggio ci sono tra il fumetto e il teatro?
Come ripeto spesso per me Eduardo De Filippo è religione. Conosco bene il suo teatro fin da ragazzino e quando nel 1998 mi proposero il progetto mi vennero i brividi. Era un prodotto ufficiale, realizzato sotto la supervisione degli eredi di Eduardo e ancora oggi trovarlo in giro tra i prodotti eduardiani è per me motivo di grande soddisfazione. Se fossi nato un paio di decenni prima avrei provato a fare l’attore teatrale con Eduardo; essendo nato troppo tardi e fumettista, in un certo senso ho quasi rimediato!
Prima di approdare definitivamente in Bonelli, hai pubblicato alcune storie erotiche per il mercato francese. Quali sono le difficoltà maggiori per non sforare nel volgare? Era un genere che ti divertiva disegnare?
Erano storie erotiche esplicite, essere volgari era quindi un dovere! Quel tipo di mercato lo richiedeva e io dovevo assolvere al compito che mi veniva richiesto! Non nascondo che mi piace il genere erotico e in un prossimo futuro spero di tornarci con qualcosa di completamente mio, più raffinato e “cerebrale”, ispirato a certi lavori di Leone Frollo o di Milo Manara. In questo caso sì che il divertimento sarebbe totale.
Al tuo lavoro di fumettista, periodicamente hai affiancato quello di illustratore, come ad esempio per vari Tarocchi pubblicati da Lo Scarabeo. Quali sono le principali differenze tra i due tipi di lavoro? Quali aspetti ti piacciono maggiormente di una e dell’altra professione?
L’illustrazione mi richiede maggior impegno creativo rispetto a un fumetto di cui mi viene fornita la sceneggiatura. Sono due arti diverse che necessitano di diverse qualità. Nell’illustrazione bisogna avere, per esempio, fantasia, gusto nella composizione e padronanza dei colori. Nel fumetto, invece, come detto mi viene data una traccia che io devo seguire e, quindi, il percorso è in qualche modo già avviato che io devo solo concretizzare e completare secondo la mia visione e attraverso il mio segno, facendo attenzione tutto sia facilmente comprensibile. Quando devo realizzare un’illustrazione posso divertirmi con i colori o immaginando composizioni accattivanti; con il fumetto soddisfo la mia predisposizione al racconto disegnato.
Nel 2002 inizi a lavorare per la Sergio Bonelli Editore, pubblicando l’anno successivo due albi di Jonathan Steele. Ci racconti come avvenuto il tuo ingresso nella testata? Che ricordo hai del tuo periodo nello staff di Jonathan Steele?
La Sergio Bonelli Editore mi fece penare: diventai maturo in un momento in cui la casa editrice era piuttosto satura e aveva una marea di persone che si proponevano in continuazione. Era il periodo in cui le case editrici minori in Italia stavano cominciando a ridursi e, quindi, parecchi disegnatori correvano verso la casa editrice milanese. Io ero praticamente un esordiente e perciò partivo enormemente svantaggiato rispetto a loro. Ma ero testardo e ci credevo. C’ho sempre creduto.
Nonostante una volta la SBE, attraverso una sua dipendente (che come avrei scoperto dopo aveva avuto il preciso compito di scoraggiare gli aspiranti collaboratori) mi disse, senza mezzi termini, di cambiare strada e di pensare a una professione diversa dal fumettista. La cosa in un primo momento ebbe lo stesso effetto di un pugno di Foreman e caddi al tappeto ma, dopo due minuti, ero di nuovo in piedi dato che le cose non mi tornavano affatto… Gli addetti ai lavori non mi giudicavano male, anzi. Quindi non mi diedi per vinto e continuai a insistere con le tavole di prova da mandare a tutte le testate della SBE.
Fu Federico Memola che riuscì nell’impresa un paio di anni dopo. Il suo Jonathan Steele aveva bisogno di un altro disegnatore nello staff e riuscì a convincere la SBE a prendere un esterno nuovo. Tra i 4 “papabili” Decio Canzio scelse me. Quando il mio albo ormai concluso arrivò sulla scrivania di Sergio Bonelli accadde quella che per me è a tutt’oggi la più grande soddisfazione della mia carriera: Sergio in persona mi chiamò e mi fece i complimenti. Come venni a sapere un paio di giorni dopo dal curatore della testata, aveva cominciato a girare con il mio albo sotto il braccio per gli uffici della casa editrice cercando per me una sistemazione su una testata di prima fascia perché, a suo dire, ero già bravo per poter affrontare personaggi più importati.
Devo avergli fatto proprio una buona impressione dato che le volte in cui poi mi capitava di incontrare Sergio di persona, mi salutava e mi ripeteva: “tu sei bravo”. Io arrossisco ancora oggi al solo pensiero e mi viene la pelle d’oca… Sergio era un monumento: ricevere i complimenti dal monumento del fumetto italiano è qualcosa di indescrivibile.
Dopo Jonathan Steele passi ad un’ambientazione totalmente diversa: la fantascienza anni ’50 di Brad Barron. Come sei stato arruolato in questa testata? Quali sono state le tue principali fonti di ispirazione quando lavoravi per questa serie?
Quando Sergio Bonelli aveva provato a destinarmi a una testata più importante fu avvisato che io ero già al lavoro sul mio secondo albo di Jonathan Steele e bisognava aspettare che finissi. Capitò che nel frattempo partì la prima storica miniserie bonelliana, Brad Barron, e c’era da comporre lo staff. La redazione, per permetterci di documentarci al meglio sugli anni ‘50 ci fornì un volumone statunitense di quasi un chilo dedicato interamente a quegli anni. Per il resto ricordo che usai molti film di genere di quel periodo o ambientati in quel periodo. Sono sempre stato molto attento all’ambientazione nei fumetti, mi piace renderla precisa il più possibile: non lesinai nessuna fonte di documentazione in cui mi imbattevo.
Dopo tre numeri di Brad Barron cambi ancora genere passando a Dampyr, la serie per la quale hai già disegnato una decina di storie tra albi regolari e speciali. Come sei entrato in squadra e quali sono le cose che ti hanno colpito di più di questa serie?
Brad Barron fu una serie a termine. Non so chi decise di destinarmi a Dampyr, ma credo lo abbia fatto per la mia propensione verso il genere horror. Di Dampyr mi è sempre piaciuta la possibilità di cambiare location in ogni albo. Ho scoperto costumi e usanze di popoli e luoghi che non conoscevo grazie al lavoro su Dampyr.
Tra le tante ambientazioni con cui ti confrontato per le storie di Dampyr, dalle comunità Amish alla guerra in Somalia, dal mare delle Filippine alla Cambogia, quale ambientazione ti ha costretto a più lavoro di documentazione?
La Cambogia. Ricordo un lavoro di documentazione pazzesco in cui ho utilizzato anche video di turisti trovati su youtube. Senza le attuali tecnologie legate a internet non sarei mai riuscito a essere così preciso. Ricordo che verso la fine ci fu da disegnare il metodo di disinnesco di una mina antiuomo. Trovai un tutorial e quindi quell’albo oggi è utile anche in caso ci si imbatta in un campo minato!!! Leggere Dampyr salva la vita!
Oltre i tre protagonisti, Dampyr è una serie caratterizzata da molti personaggi secondari e da tanti antagonisti. Quali sono i personaggi che ti diverti di più a disegnare?
Sicuramente Tesla. Avrei anche voluto disegnarla anche in atteggiamenti più erotici… ma Boselli mi avrebbe spedito a domicilio uno squadrone della morte e quindi ho sempre desistito.
Negli ultimi anni hai pubblicato alcuni volumi per il mercato francese, nello specifico la serie Temps des loups su testi di Christophe Bec per Soleil e la serie Le Kabbaliste de Prague su testi di Makyo per Glénat. È diverso lavorare per la Francia e per l’Italia?
Lavorare per il mercato francese è stato per me meno impegnativo che lavorare su Dampyr. Dopo che hai affrontato Dampyr e le sue ambientazioni in giro per il mondo tutto il resto diventa una quasi passeggiata. Pure la Praga del ‘600 del Kabbaliste de Prague. A volte ci si lascia ingannare dal formato e dal “prestigio” dell’edizione in carta patinata e copertina rigida, ma sui lavori francesi io non ho ritrovato la stessa cura e la stessa precisione che ho verificato su Dampyr. Questo è innanzitutto un merito personale di Mauro Boselli creatore e curatore della serie.
Un paio d’anni fa hai disegnato la storia Il segreto di Juliet per Morgan Lost. Hai in programma di tornare su questa serie?
Non so se ritornerò a disegnare Morgan Lost. Chiaverotti è un autore con cui mi sono trovato benissimo e ciò che scrive rientra tra le cose che preferisco. Vedremo. Come ripeto spesso, è la SBE che decide per me.
Oggi sei sulla rivista Dylandogofili come autore di una bellissima copertina. Ci racconti come hai scelto questo soggetto?
Mi sono affidato all’ispirazione del momento. Non ricordo altro! Ho realizzato parecchie illustrazioni di Dylan Dog, personaggio che mi viene chiesto spessissimo dai lettori e ogni volta trovare qualcosa di nuovo da disegnare che sia “iconico del personaggio” diventa sempre più difficile. Quando proprio l’ispirazione fatica ad arrivare e non mi sono state fornite indicazioni, allora mi guardo foto, illustrazioni, disegni di genere horror e tutto ciò che può stimolare la mia fantasia e creatività.
Il tuo debutto con l’Indagatore dell’incubo è stata la storia Doppia identità, scritta da Giovanni Gualdoni e pubblicata su Dylan Dog Color Fest n. 10. È stato divertente trasformare il seducente Dylan in un “nerd”?
Di questo non fui particolarmente contento in verità. Avrei voluto misurarmi con le ambientazioni classiche “dylaniate” e invece, ahimè, dovetti accontentarmi di disegnare un nerd con il volto e il fisico di Dylan, ma con un abbigliamento diverso e che si muoveva in un ambiente diverso.
Sei o sei stato un lettore di Dylan Dog? Quali aspetti di piacciono di più di questa serie e di questo personaggio?
Sono ancora un lettore di Dylan Dog e mi sento ancora più lettore che disegnatore del personaggio. E proprio per questo motivo il Luca lettore non ha fatto alcuno sconto al Luca disegnatore quando si è trattato di doverlo disegnare. Sono stato il primo rompiscatole di me stesso. Dylan Dog mi è sempre piaciuto per il modo in cui un personaggio così amabile nelle sue caratteristiche di base sia stato calato nel genere horror, utilizzando quest’ultimo per raccontare i “mostri” della nostra quotidianità.
Tra le tante rappresentazioni grafiche di Dylan Dog quale è la tua preferita e che quindi immagino tu abbia usato a modello per perfezionare il “tuo” Dylan?
Essendo cresciuto professionalmente al fianco di Bruno Brindisi ho appreso da lui il modo di disegnare Dylan. Che poi era quello che gli aveva chiesto precedentemente Tiziano Sclavi. Da “lettore ortodosso” penso che Dyan Dog debba somigliare a Rupert Everett come da tradizione. Io rifiuto ogni altra caratterizzazione che si discosti troppo dall’attore britannico.
Sono previsti o in lavorazione nuovi tuoi albi di Dylan Dog?
C’è un albo di 94 pagine per la collana Old Boy che ho finito qualche mese fa: è di prossima pubblicazione, ma non so ancora precisamente quando.
Attualmente a cosa stai lavorando?
Nel momento in cui sto scrivendo (agosto 2019) sto portando avanti un mio progetto personale che coltivo da anni e che spero finalmente di finire prestissimo.
L’aver affrontato così tanti personaggi è uno stimolo oppure preferisti concentrarti su uno specifico personaggio senza dover metterti continuamente in gioco con nuovi scenari ed atmosfere?
Sicuramente per me è uno stimolo. Mi piace variare. Ma non sempre si può, soprattutto quando si collabora con una casa editrice come la SBE che produce serie mensili e che quindi ha bisogno di staff di disegnatori definiti e costanti per portare avanti la programmazione.
Intervista pubblicata originariamente sulla rivista Dylandogofili #13.