Con oltre 50 storie all’attivo, Giampiero Casertano è una delle colonne portanti del successo di Dylan Dog. Nei suoi più di trent’anni di professione ha disegnato alcune delle storie più belle dell’indagatore dell’incubo, ma si è confrontato anche con tanti altri personaggi, da Nick Raider a Tex.
Lo incontriamo oggi per ripercorrere la sua carriera e parlare del suo approccio al fumetto, in una intervista realizzata originariamente per la rivista Dylandogofili.
Agli albori della carriera, quando hai capito che la passione per il disegno sarebbe potuta essere indirizzata proprio nel fumetto e diventare la tua professione?
Praticamente già da bambino. Quando a scuola ci davano un compito di disegno, mi accorgevo che una sola immagine non mi bastava. Avevo bisogno di più immagini per raccontare una storia. È venuto quasi istintivo: affiancavo sempre all’immagine principale uno o più riquadri per dare una continuità spazio-temporale a quello che stavo disegnando. Poi, chiaramente, poco alla volta, crescendo e guardando fumetti e libri illustrati questa è diventata proprio una esigenza, sempre più strutturata. Ed alla fine è diventata la mia vita.
Quanto è stato importante e formativo il tuo incontro con Leone Cimpellin?
È stata sicuramente una esperienza fondamentale. Lui non solo mi ha aperto le porte di questo mondo straordinario, ma mi insegnato anche un’etica del lavoro, che il lavoro è fondamentale: lavorare per migliorarsi, lavorare per rendere ragione del proprio lavoro. Oltre a questo, mi ha fatto conoscere anche altri professionisti che, volta per volta, si sono aggiunti al suo studio. In qualche modo si è creata una sorta di fucina – come la chiamò una volta Hugo Pratt venendo in questo studio – e questo mi ha permesso di confrontarmi e migliorarmi guardando il disegno e i fumetti dei colleghi. In questo mestiere è raro che un professionista già affermato possa prendere a bottega un ragazzo. Allora io gli servivo, in realtà, per ripassare in china gli sfondi delle sue tavole, però così facendo io veramente ho imparato il mestiere a bottega, ed è un fatto abbastanza raro. Lui mi ha dato questa possibilità e da lì è nato tutto. Senza di lui, probabilmente, non sarei qui ora a parlare con te del mio lavoro. È stato un personaggio chiave. Anzi, auguro a tutti di trovare un maestro che ti dia questa possibilità.
Uno dei tuoi primi personaggi a diffusione nazionale è stato Martin Mystère per il quale hai disegnato nove albi a metà degli anni ’80. Cosa puoi raccontarci di questa esperienza?
Anche questa è stata una esperienza molto, molto importante. Devi sapere Marco, che prima di approdare a Martin Mystere io lavoravo in questo studio – noi lo chiamavamo Studio Comix – ed era formato da Leone Cimpellin, poi c’erano Carlo Ambrosini, Enea Riboldi, e via via si è arricchito di altri personaggi del calibro di Pasquale Del Vecchio oltre ad altri amici che collaboravano lì all’interno facendo altri mestieri, chi il pittore, chi l’illustratore e via dicendo. Quindi Martin Mystere è stato importante perché io arrivavo da una collaborazione saltuaria con Ambrosini: lo aiutavo insieme con Riboldi sulle tavole di Ken Parker, però erano, appunto, collaborazioni saltuarie. Quando, invece, venni chiamato dal buon Decio Canzio, mi fu offerta la possibilità di entrare stabilmente nello staff di Martin Mystere. È stata una esperienza molto bella e molto divertente, perché ho avuto la possibilità e libertà di sperimentare nuovi orizzonti, nuovi modi di guardare al fumetto. Lì ho iniziato a sperimentare un nuovo modo di ripassare in china le mie tavole che mi ha dato grande soddisfazioni che poi ho riportato anche su Dylan Dog. È stato anche molto divertente perché Alfredo Castelli è lui stesso un fumetto, geniale, professionalmente grande. Pensa che lui mi passava le sceneggiature, non scritte, ma disegnate con il suo Omino bufo, che è una delle sue più grandi rappresentazioni di personaggio, e questo Omino bufo volta per volta descriveva le scene che io andavo poi a disegnare. Era divertentissimo.
Sei stato uno dei primissimi disegnatori di Dylan Dog, avendo debuttato sul numero 10. Voi che ci lavoravate in quei primi momenti, avevate già intravisto la potenzialità di questo personaggio destinato a diventare, da lì a poco, uno dei maggiori successi del fumetto italiano o il successo ha colto di sorpresa anche voi?
Io personalmente non mi aspettavo un successo così grande, anche se, attraverso le sceneggiature di Tiziano Sclavi, avevo già colto che quello era un fenomeno completamente nuovo nel panorama fumettistico italiano. Era un modo nuovo di raccontare le storie a fumetti. Avendo avuto la fortuna di disegnare tra le più belle storie di Tiziano, ho avuto modo di apprezzarne la capacità visionaria, la cultura inserita all’interno del racconto, la capacità di raccontare su più livelli la storia. Non a caso i vari linguaggi che inseriva richiamavano la letteratura, la pittura, il cinema, la musica. All’epoca ero un pischello di ventun anni e mi rendevo conto di essere di fronte ad una concezione del fumetto mai vista prima di allora e molto stimolante, molto creativa. Quindi anche da parte mia c’era un coinvolgimento personale incredibile. Sentivo di imparare molto attraverso le sue sceneggiature. Se poi mi chiedi se come fenomeno noi pensassimo al successo che poi è stato: sinceramente no. Credo che neanche in casa editrice ci si aspettasse un successo di quella portata. Mi ricordo che i primi anni quando mi recavo in redazione c’era un entusiasmo sempre crescente e in particolar modo in un momento in cui mi dissero: “il personaggio sta cominciando a volare nelle vendite perché il pubblico femminile lo ha scoperto”. E da quel momento, effettivamente, un personaggio cult.
Tra le decine e decine di storie di Dylan Dog da te disegnate, ce n’è qualcuna che ti è rimasta particolarmente nel cuore?
È po’ come chiedere ai genitore quale è il tuo figlio preferito. Ho avuto la fortuna di disegnare tra le storie più belle che ha scritto Tiziano. Ne ha scritte tante, ma soprattutto tra le prime cento ha espresso il massimo della sua professionalità e genialità. Affettivamente sono legato in particolar modo a due albi: ovviamente il primo – Attraverso lo specchio (Dylan Dog n. 10) – in quanto quello d’esordio, ma quello che mi è rimasto maggiormente dentro è Memorie dall’invisibile (Dylan Dog n. 19), premiato tra l’altro recentemente sui social come uno degli albi più piaciuti al pubblico dell’intera collana. Secondo me, Memorie dall’invisibile è un momento alto, dove Tiziano è riuscito a far convivere una sorta di capacità drammatica, nostalgica e una sorta di pietà verso l’umano. Tutto questo non era facile da rappresentare a livello grafico. Mi ricordo che in più di un’occasione ho dovuto fermarmi e cercare di studiare diverse soluzioni perché non era facile, non era la rappresentazione del fumetto tradizionale. È stata veramente una sfida, però ti assicuro che una volta finita mi è rimasta dentro. Aggiungo anche un terzo albo: La casa degli uomini perduti (Speciale Dylan Dog n. 5); è stato un gran divertimento disegnarlo. Tutto questo senza nulla togliere al piacere che ho avuto anche in altre storie, però è vero che ci sono alcuni albi a quali l’autore è più attaccato affettivamente.
Sia Attraverso lo specchio che Memorie dall’invisibile sono stati ripubblicati a colori all’interno delle collana Il Dylan Dog di Tiziano Sclavi. Cosa ne pensi di queste operazioni di ricolorazione di albi nati e pensati in bianco e nero?
Ti devo dire la verità, io sono stato sempre abbastanza scettico sulle colorazioni quando si inseriscono in un albo pensato non a colori e basato su contrasti bianchi e neri e atmosfere bianche e nere. Nella ristampa in questione, invece, è stato fatto un lavoro eccezionale, secondo me. Con quella sorta di retinaggio vintage dei vecchi albi, sono riusciti a rispettare il fumetto in quanto tale, ma nello stesso tempo lo hanno arricchito di questo taglio veramente originale. L’ho trovato un po’ retro e di gran gusto, e il colore è sempre a commento del disegno. Ho notato una sorta di personalità del colore che, invece di turbare, ha aggiunto un elemento nuovo. È stata a mio avviso un’ottima idea e si vede il rispetto del disegno in bianco e nero. È stata una bellissima scoperta: ho fatto i complimenti allo staff per l’ideazione dell’intera serie.
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, hai lavorato anche come copertinista per Nick Raider, dal numero 1 al numero 43. Come si fa a sintetizzare un intero albo in una singola immagine?
Per fare una copertina serve una capacità di sintesi con elementi di richiamo. Non dimentichiamoci che la copertina è l’invito che il fumetto fa al lettore di essere preso ed essere letto. La copertina deve avere una capacità attrattiva, con elementi originali, e nello stesso tempo deve rispettare il clima della serie e il personaggio. Ovviamente il tutto racchiuso in un’immagine il più efficace possibile. Devo dire che allora forse non ero preparatissimo per questo tipo di lavoro di rappresentazione. Anche perché in casa editrice il controllo delle copertine era molto rigido: se lo facessi adesso, con l’esperienza che mi ritrovo, avrei un altro tipo di impostazione, un taglio diverso. Ho da poco ultimato la cover del Tex Gigante e devo dire che mi sono divertito moltissimo. In programmazione c’è anche un altro albo a colori di Tex e, anche lì, mi sono trovato a fare una copertina a colori come piace a me. Invece in Nick Raider la copertina la realizzavo in bianco e nero, dopodiché in redazione veniva inserito un colore piuttosto piatto, come si usava convenzionalmente allora sugli albi Bonelli. Era un approccio molto differente. Oggi quelle copertine le farei sicuramente in un modo diverso.
Nella tua carriera hai lavorato principalmente su testate regolari. Io ho apprezzato molto il tuo lavoro anche in albi autoconclusivi come ad esempio Decio, Il boia di Parigi, La pattuglia e Uccidete Caravaggio!. Come cambia il tuo lavoro in questi casi?
Chiaramente la Bonelli ha un proprio taglio editoriale nell’impostazione di una sceneggiatura e nell’impostazione del disegno: le varie strisce sono ormai collaudate e quello è il tipo di griglia a nostra disposizione. Ovviamente, al di fuori di quel tipo di traccia, di quel tipo di modo di concepire il fumetto, se ne aprono altri. Decio, io e lo sceneggiatore Giorgio Albertini, lo abbiamo praticamente affrontato da soli: non avevamo neanche una commessa da qualche casa editrice. È realizzato “al buio”, per il piacere personale di andare a riscoprire un momento storico che volevo raccontare. È stata proprio la libertà assoluta a condurci; in modo anche un po’ incosciente, sperimentando tecniche di racconto e di composizione della pagina molto libere. Abbiamo avuto la fortuna di vedere poi il nostro lavoro pubblicato, ma durante la realizzazione nessuno ce lo garantiva. Per questo in Decio puoi trovare la libertà allo stato puro. Come tu sai, ho una passione per tutto ciò che concerne la storia e il costume e quando ho realizzato in Bonelli, per esempio, Il boia di Parigi sono rientrato in quel tipo di taglio di cui ti parlavo prima, però l’ho fatto con un grande piacere. Devo dire che la Bonelli, nonostante codifichi molto bene i suoi personaggi e le sue serie, lascia libertà di espressione al disegnatore. Anche se, ovviamente, non si deve tradire la linea editoriale e il personaggio, però sono sempre stato molto libero di intervenire sull’interpretazione del disegno: da quel punto di vista non mi sono mai sentito “castrato”.
Non avessi ora da finire la storia alla quale stai lavorando, potendo scegliere, c’è una ambientazione o un personaggio che non hai mai disegnato e con il quale ti piacerebbe confrontarti?
Anni fa tentai una avventura francese con un progetto sulla pirateria storica: purtroppo la cosa non andò in porto. Ecco, quella è una ambientazione che mi piacerebbe affrontare. Sono quelle cose che fanno parte, in qualche modo, di un piacere un po’ infantile che abbiamo noi disegnatori e che ci portiamo sempre appresso. La cosa importante è che il progetto e la sceneggiatura siano notevoli. Una sceneggiatura scritta da un grande autore ti aiuta a tirar fuori quello che di meglio hai da dare. Da questo punto di vista sono stato molto fortunato: in carriera ho avuto tra le mani storie veramente molto belle. Se invece mi parli di un genere, ecco allora sì, ti direi la pirateria. Avevo fatto anche delle prove per quel progetto francese e il non aver realizzato quella storia mi è rimasto un po’ lì: come nel film Ovosodo dove il protagonista dice di sentirsi come con un uovo sodo rimasto in fondo alla gola, che non va né su né giù, a mezzo. Ecco, quel tipo di storia è una cosa che mi piacerebbe riprendere e rivisitare. Se il Padreterno mi darà la possibilità di farlo e ci sarà una buona proposta… chissà. Nel frattempo devo dirti che attualmente il Tex che sto realizzando mi sta prendendo tutto il tempo a disposizione. Rispetto a Dylan, realizzare Tex un lavoro immenso: sto lavorando di più e guadagnando di meno, ti dico solo questo. Però è un gran piacere, un gran godimento.
Ormai hai alle spalle oltre trent’anni di carriera. Come è cambiato il lavoro del fumettista dagli anni ’80 ad oggi?
Io penso che il cambiamento delle nuove tecnologie, che ti danno delle possibilità grandiose da esplorare, sia sicuramente una aggiunta rispetto al lavoro che c’era da fare prima. Per farti un esempio banale, una volta avevamo una libreria per documentarci, con tutti i limiti che questo concerne. Avevamo un numero di immagini infinitamente minore rispetto ad adesso. L’approccio del disegnatore e le domande che si fa di fronte al lavoro che deve compiere, però, oggi sono le stesse ieri. Con l’aggiunta che il particolare e la pertinenza di quello che si disegna, oggi sono molto più controllati dal lettore rispetto ad una volta. Come il disegnatore ha più strumenti per documentarsi, le stesse tecnologie rendono anche il lettore attentissimo anche a piccoli particolari. Da questo punto di vista il lavoro è sicuramente aumentato e, nello stesso tempo, è stato facilitato da internet, che in questo ti dà una grande mano. Secondo me, la domanda iniziale dovrebbe essere che tipo di approccio ha il disegnatore nell’affrontare il lavoro e che tipo di domande si fa nell’affrontare il lavoro. Quanto più le domande sono pertinenti e intelligenti, tanto più il lavoro ne risentirà positivamente. Nelle domande ci passa anche quello che piace a te, la tua sensibilità, il tuo modo di vedere le cose. Dunque, l’approccio del disegnatore oggi non è cambiato, è cambiato tutto il resto. Io mi auguro sempre di farmi le domande giuste, di fronte alla realizzazione di una sceneggiatura.
In chiusura di intervista, Giampiero Casertano ci ha mostrato alcune tavole in esclusiva del suo nuovo Tex (potete vedere tutto nel video qui sotto). Vi ricordo che un’altra versione di questa intervista, corredata di altre immagini e di una copertina inedita, la potete trovare sul n. 15 della fanzine Dylandogofili.
Ringrazio ancora Giampiero Casertano per la disponibilità e vi invito a vedere la video intervista completa sul nostro canale youtube o qui sotto.